domenica 25 marzo 2012

Il sasso di Serra nello stagno di Twitter

Finalmente in rete si parla di qualcosa di interessante. Anche in Italia.
Dopo quindici anni di utilizzo sperimentale da parte di alcune comunità professionali, solitamente votate al mutuo soccorso tecnico; dopo dieci anni di pubblicazioni, saggi e articoli che hanno sempre avuto la rete come oggetto e mai come ambito; dopo il boom demografico della rete degli ultimi cinque anni, avvenuto peraltro in tre tappe (prima la proliferazione di scrittori da Blog, poi il battessimo di massa dei nati digitali in Facebook, infine l’occupazione di Twitter da parte degli impiegati della conoscenza); dopo tutto questo, oggi si parla della rete anche in rete. Non che se ne parli con molta competenza, ma è già un primo passo.

Molto del merito è del sasso nello stagno lanciato nei giorni scorsi da Michele Serra, che su Repubblica ha dedicato una sua “Amaca” a Twitter. In sintesi, prima di concludere con un colpo da maestro (“Dovessi twittare il concetto, direi: Twitter mi fa schifo. Fortuna che non twitto..”), Serra ha rilevato come le caratteristiche del mezzo inducano un “uso frettoloso e impulsivo della parola”, totalmente votato non solo alla brevità (per il noto limite di 140 caratteri), ma anche alla ricerca di posizioni nette, che non nutrano dubbi e che non consentano alcun tipo di ragionamento, solo una scelta di campo tra posizioni polarizzate. Non solo: nel leggere i tweet si avverte una sorta di “ossessione di comunicare” da parte di chi li scrive: un’abitudine a manifestare sistematicamente la propria presenza che, da un lato, rivela un rapporto narcisistico e autoreferenziale col mezzo e, dall’altro, provoca una riduzione della loro capacità d’analisi (indipendentemente dal tema trattato), orientandola inevitabilmente alla schematicità o alla provocazione. “Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo”.

Le parole di Serra hanno alzato mille rivoli di commenti e opinioni, anche in alcuni giornali ma soprattutto in rete, moltissimi dei quali in contrasto con la sua opinione. Ne ho letti parecchi e troppe volte ho avuto il dispiacere di leggere (ancora..) frasi come “non sono i mezzi ad essere pericolosi, ma come si utilizzano”. E non parlo di frasi sentite al mercato, ma purtroppo lette su articoli di giornali noti, come quello di Andrea Scanzi su Il Fatto: “C’è una cosa che Serra non faticherebbe a vedere, se solo fosse meno obnubilato da quella che potremmo rispettosamente chiamare “sicumera vintage”: Twitter, come tutti i mezzi, non è sbagliato in sé. Se usato male, è mera autoreferenzialità (che Serra conosce benissimo, come tutti noi). Se usato benino, è puro divertimento (che Serra conosceva benissimo). Se usato bene, è palestra di scrittura e umorismo (di cui Serra era, e a volte è, maestro)”. Evidente che qui si scrive con nessuna competenza di media ma solo per parlare della propria conoscenza di Serra. Ai media piace parlare di sé. E’ una regola che trova nuova conferma in questa vicenda e che in rete prende forme perverse. Come ha notato un altro giornalista, Federico Mello: “Su Twitter le discussioni più calde si interrogano su chi meriti o meno di finire nelle hashtag. Gli utenti a volte si sentono una setta: come se oggi la più moderna forma di socialità possibile sia quella dei retweet”.

Altri osservatori critici hanno almeno focalizzato il dissenso da Serra in qualche idea più precisa. Secondo Fabio Chiusi, egli “ignora l’importanza del contesto in cui Internet si diffonde” rinunciando a indagarequali sue caratteristiche abbiano quali effetti in quale tipo di società”. Posizione vicina a quella di Luca Sofri, il quale ammette che “c’è una cultura che privilegia la superficialità schematica e partigiana”, ma essa “prescinde da Twitter e dai blog e dai commenti online e dagli Sms”; è una cultura “che noi stiamo ogni giorno accogliendo e coltivando, e i modi in cui spesso dilaga in rete non nascono sulla rete, ma nel mondo di prima e di fuori, nelle nostre conversazioni private, nei nostri pensieri”.

E’ una bella notizia che giornalisti e opinion maker italiani comincino a porsi questioni sull’utilizzo critico dei new media. Anche se la gran parte delle loro opinioni sono ben lontane da aggiungere qualcosa di significativo alla riflessione scientifica sui media e i loro impatti sociali, le cui conclusioni fondamentali sono assodate da almeno vent’anni. Tra queste, l’esistenza di un impatto diretto delle forme mediali sui meccanismi percettivi e cognitivi, nonché di una loro diretta influenza sia sulla natura delle relazioni che consentono di instaurare sia sui contenuti che consentono di trasmettere. Ma ora non è questo l’importante. Che si continui a dibattere..

Se – come diceva McLuhan - “il contenuto di un medium è solo il succoso pezzo di carne con il quale il ladro tecnologico distrae il cane da guardia dello spirito”, allora cominciare a guardare il ladro in faccia è il primo passo per riconoscerlo.
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